Un grande esploratore del mare racconta uno straordinario incontro ravvicinato con i giganti cetacei. L’avvicinamento a bordo di un kayak, l’immersione, l’apnea, i lembi di pelle che cadono, gli scatti, una spalla lussata da un colpo di coda
La prima volta che lessi la storia del capodoglio Moby Dick non mi piacque. Erano molto più belli gli animali dell’enciclopedia che
mi avevano regalato da bambino, “Vita Meravigliosa”. I disegni colorati mi buttavano tra onde, schizzi, schiuma e spruzzi. Io mi
sentivo lì, ero lì. Il capodoglio della mia enciclopedia non era albino, è vero, ma grigio matita, eppure, nonostante due grossi arpioni conficcati nella schiena, riusciva a vibrare colpi di coda così poderosi da rovesciare le scialuppe dei balenieri. Quando poi gli sventurati finivano in acqua, li inghiottiva uno alla volta, mentre i poveretti si sbracciavano tra le onde. Aveva denti grandi, erano alti come bottiglie di birra e la testa lunga come il mio letto. Negli sfiatatoi ci sarebbe entrato tutto il mio braccio. C’era esasperazione della vita e della morte in quelle pagine. Per la verità non ero nemmeno troppo dispiaciuto per le tragedie umane di quei poveretti.
Il capodoglio si difendeva e basta. Non era lui ad attaccare, e tutti hanno il diritto di difendersi.
Non sarebbe bastata l’enciclopedia a segnare la mia vita, ci si mise di mezzo anche mia nonna. Sestilia era una vecchietta curva, sdentata, con lo scialle sulle spalle e lunghi fili di barba. Nonna era esile e un po’ gobba, ma mi raccontava delle favole di mare paurose e affascinanti. La ascoltavo con la bocca spalancata. Nelle sue storie affioravano dalle onde onnivori giganti marini. I balenieri pelosi e tatuati erano i bocconi più gustosi. La favola finiva sempre bene: il capodoglio con uno sbadiglio o uno starnuto apriva la bocca e tutti si salvavano. A quel punto, spegnevo la luce e dormivo sereno. È andata così, senza volerlo. Per anni, giorni e giorni in compagnia di mostri del mare. Erano dappertutto: tra le pagine, tra le favole e nei sogni. Così, a un certo punto, sono andato a ricercare le fantasie della mia infanzia. Non è stato un colpo di fulmine, è successo per gradi. Negli anni Novanta avevo già girato un po’ di mondo: erano vent’anni che mi immergevo nei mari lontani per fotografare squali e balene. Il primo squalo non l’ho cercato, mi ha trovato lui. La storia è lunga, ma la conclusione è che mi ha risparmiato quando ero ferito e sanguinante. Sapevo di aver vissuto un’esperienza particolarmente fortunata, ma mi convinsi che gli squali non erano i feroci mangiatori di carne umana raccontati nei film.
Quando decisi di dedicarmi al capodoglio, avevo già vissuto avventure e disavventure e avevo già rischiato più volte la vita in mare. Mi
ero impigliato nelle reti di una tonnara in Sardegna e sarei rimasto senza aria se non fossero venuti a salvarmi con un coltello per tagliare la rete. Durante un’immersione mi avevano perso in Atlantico ed ero rimasto naufrago per nove interminabili ore. Ero stato assalito da gabbiani affamati che mi beccavano il viso. In California uno squalo era entrato dentro la gabbia che serviva a proteggermi. Come stare in una cabina telefonica con un leone. Il mese prima, un varano di tre metri aveva fiutato il pollo che avevo a bordo ed era saltato nel mio gommone. Più inquietante di un coccodrillo e dotato di un morso letale persino per un bufalo, il varano aveva puntato le mie cosce e stava a un metro di distanza. Mi ero preparato al peggio. Per fortuna, alla fine, si accontentò del pollo. Quando pensai che i tempi fossero maturi per il capodoglio, avevo un obiettivo. Volevo vedere la cosiddetta “margherita”. Tutti nel mio ambiente ne parlavano, ma nessuno l’aveva vista. La margherita: quando i capodogli riemergono per respirare dopo immersioni lunghissime
nel buio degli abissi, si mettono in cerchio in superficie con le teste verso l’interno e le code verso l’esterno, una disposizione a forma di fiore, di margherita appunto. Io volevo andare lì in mezzo, come un’ape tra i petali. Volevo vederli da vicino e guardare negli occhi i mitici mangiatori di balenieri della mia infanzia. Era pericoloso?
Chi lo sa. Potevano stritolarmi, mordermi, soffocarmi oppure semplicemente trascinarmi negli abissi per gioco, come mi era capitato con un globicefalo alle Hawaii. E non potevo chiedere consiglio a nessuno, nessuno lo aveva fatto prima. Rischiare o rinunciare. La mia paura era di essere mangiato. D’altronde i capodogli sono parenti delle orche e le orche nell’emisfero sud mangiano i mammiferi, e io sono un mammifero. Per giunta i capodogli hanno denti più grandi di quelli delle orche. I miei moventi erano la curiosità del mare e scoprire i miei limiti. Mi convinsi che non mi avrebbero mangiato, preparai attrezzature fotografiche, pinne da apnea, maschera e boccaglio. Partenza per le Azzorre, dove le possibilità di incontrarli erano alte. I capodogli non hanno paura come le balenottere.
Anzi, avvicinarli è addirittura semplice. Ma non mi bastava avvicinarli, avevo bisogno di stare a un metro da loro, mezzo metro. Con
tutti gli animali esiste una distanza di sicurezza che non devi superare. Quale sarà la loro? I predatori della savana possono essere fotografati a distanza con un teleobiettivo che li avvicina. Sott’acqua queste lenti non funzionano, perché l’acqua di mare è piena di particelle che sporcano le foto. Dovevo attendere che fosse il bestione a interessarsi e avvicinarsi a me. I primi due giorni vedo capodogli lontani quattro o cinque metri, ma non stanno fermi, nuotano e per quanto sembrino lenti, vanno più veloci di un nuotatore olimpionico. Non bisogna mai inseguire gli animali, neanche provarci. Mi fermo e li guardo passare. Il terzo giorno vedo in lontananza un ribollire di spruzzi obliqui. Sono loro e sono tanti. Sembrano fermi, mi avvicino con il kayak, l’ultimo tratto con un fazzoletto davanti alla bocca per non respirare senza protezioni. Il loro fiato è pieno di batteri e parassiti, può provocare infezioni polmonari. Il mio assistente aveva avuto uno pneumotorace quando cercavamo le balenottere comuni nel Mediterraneo. A una decina di metri da loro, scivolo lentamente in acqua. Mi avvicino piano piano per non farli andare via. Loro sanno che io sono lì. Ora li vedo in superficie. Sono tanti, almeno cinque. Cosa staranno pensando vedendomi vicino? Io non ho mai visto un capodoglio, ma è probabile che neanche loro abbiano mai visto un umano. Sono a tre metri da loro, ora li vedo quasi tutti. Sono in formazione. Si sono disposti a margherita. Devo cercare di andare in mezzo a loro. Mi sembra facile, ma se mi schiacciassero? O non mi facessero uscire? O si irritassero? Sono a un metro dal più vicino.
È bellissimo, grigio come i disegni della mia enciclopedia, maestoso come lo immaginavo. Cerco il suo occhio, ma non lo trovo. È piccolo, posizionato un paio di metri dietro al muso. D’altronde gli occhi non servono nel buio degli abissi. Un capodoglio non riuscirebbe a vedere nemmeno la sua coda. Lui vede con le orecchie: emette dei click come i delfini e i pipistrelli, e si orienta con i suoni che rimbalzano sul sonar che ha nel capoccione. Mi si avvicina un secondo capodoglio, e poi un terzo e un quarto. Ora non so
più quanti sono, l’emozione è più forte della ragione, non so più contare. Mi concentro su uno di loro, il più grande, ma non perdo di vista gli altri. Mi viene in mente mia nonna. Indugio al centro della margherita. Perdono pelle intorno a me. Questi colossi perdono pelle in continuazione per non permettere ai parassiti di attaccarsi al loro corpo ed essere più idrodinamici nelle loro immersioni. È difficile scattare una foto senza pelle davanti all’obiettivo. Questa foto è finalmente bella perché non inquadra lembi di pelle.
Nuotando ne perdono grandi come lenzuola. Voglio andare vicino agli occhi, guardare i giganti. Si stringono intorno a me, sono circondato.
Ho i battiti fuori controllo. Ho desiderato per molti anni di stare esattamente dove sto ora, ma in questo momento vorrei anche andarmene via. Un capodoglio si avvicina troppo, quasi urta la mia macchina fotografica. Forse vuole dirmi qualcosa. Entra in gioco la paura. La ascolto. Decido di immergermi e scivolare da sotto, passando più giù delle loro code. Emetto tutta l’aria che ho nei polmoni e scendo a candela nella colonna d’acqua. Non voglio perderli di vista. Due, tre, sei, dieci metri di profondità, mi allontano lento con dolcezza in una delle più lunghe, piene e consapevoli apnee della mia vita. Spero che non se ne accorgano. Invece tutti si voltano nella
mia direzione e mentre me ne vado un cucciolo decide di venirmi incontro e mi saluta affettuosamente con la coda. Forse era una carezza. Pur essendo il più piccolo del gruppo, è lungo sette metri e mi lussa una spalla. Risalgo sulla canoa dolorante e torno a
terra. Rientro in Italia e mi operano. Questa manciata di minuti – che esiste stabile e galleggiante nei miei ricordi – per me vale una vita. L’uomo non è padrone della natura e il mare è una immensa riserva di meraviglie.